Le filastrocche

Autore: Arrigo Franceschi

Ai giorni nostri le mamme ai loro figli parlano in italiano, ed è giusto che sia così. Anche la televisione ha contribuito molto in questo senso.

E vero che si imparano anche parecchie parolacce in romanesco o in napoletano, qualcosa della nostra lingua rimane. Ai miei tempi le cose erano diverse, si parlava sempre in dialetto e la lingua italiana per noi era come una seconda lingua.

Alle scuole medie o alle superiori il problema più grande, per chi le ha frequentate, è sempre stato quello della lingua italiana.

Mia mamma, che era maestra, dava a me e a mia sorella, purché parlassimo in italiano tra di noi e tutto il giorno, una lira a testa. Una lira era una cifra enorme. Con una lira si poteva andare in cooperativa ed avere dalla Nina uno di quei bombi di liquirizia a forma di mora che erano la fine del mondo. In realtà, io lire non ne ho prese molte perché qualche parola in dialetto mi scappava sempre, anche perché mio padre faceva boicottaggio e mia sorella faceva la spia: “Mamma, guarda che Arrigo ha parlato in dialetto!“. E così la lira andava a farsi benedire. Ma sto divagando: torniamo in argomento. Il fatto che adesso si parli quasi solamente in italiano impedisce che ai bambini vengano raccontate le vecchie filastrocche:

Filastrocche, in dialetto, ce ne sono a centinaia, ci vorrebbero parecchi numeri del notiziario per scriverle tutte; qualcuna però sul nostro giornale vale la pena ricordarla. Non so se lo avete notato, ma i bambini piccoli hanno la tendenza a prendersi un piede in mano; qualcuno se lo porta addirittura alla bocca, altrimenti battono la mano ritmicamente sul piede. Ecco perché è nato il  fera pe’. E’ indispensabile precisare, per le nuove generazioni, cosa significa ferar . In passato ai buoi od anche alle mucche che erano addette al traino del carro venivano inchiodati sotto le unghie dei ferri particolari, detti caple ; servivano per proteggere il piede e per consentire una maggiore aderenza al terreno. In ogni paese esisteva la travaia dove veniva effettuata questa operazione . Perché tutto funzioni bisogna fare così: prendere sulle ginocchia il bambino; tenere con una mano la mano e con l’altra il piede del bambino e, battendo ritmicamente sul piede del bambino, recitare quanto segue: Fera, fera pe’ che me papà nol gh’é, quant che el vegnerà, el peot sarà ferà.

Nella mia scarsa esperienza di padre posso garantire che si tratta della maniera migliore per far star zitti i bambini che piangono. Provare per credere. Quando i piccoli cominciano a muovere i primi passi, sembra quasi che ballino ed allora si prendono per le due mani e si recita, ballando: Bala, bala balerin, son sul prà de me cosin, me cosin nol vol che bala perché è mort la so cavala. E se more anca el so bo’, per dispeto balerò.

Quando i bambini diventano un po’ più grandi, allora la filastrocca può essere questa: ‘Na volta ghera ‘n om che neva ‘ntorno al dom co la sciopeta ‘n spala gonte da dirtela o da contartela.

Ed il bambino dice:” contemela “. E la storia ricomincia.

Da ragazzi succedeva spesso di prendere in mano una lumaca. Questa, appena catturata, ritirava le corna e rientrava nel suo guscio. Allora noi per farla uscire di nuovo recitavamo quanto segue: Buta, buta corniciol Per ‘na feta de ciciol, una a ti, una a mi, una a quela dona che è morta l’alter dì.

L’ultima filastrocca è proprio originaria di Favrio; anche se le rime non si baciano molto vale la pena di scriverla ugualmente: A le una se va giò la cuna, a le do se varda giò, a le tre’ se va a Curé, a le quater se va a bater, a le zinc se va a Dasint, a le se’ se va a Fiavé, a le set se va ‘ndel let, a le ot l’è not, a le nof l’è not e strof, a le des beca el pules