Così, una volta, andavano le cose
Quando eravamo piccoli, delle persone adulte, particolarmente degli uomini, noi avevamo il terrore… Quando li incontravamo, da soli, per strada, cercavamo di svicolare. Non sempre questo era possibile e quindi, spesso, venivamo apostrofati in maniera piuttosto rude. Faccio alcuni esempi. Al tempo della fienagione tra i compiti dei ragazzini c’era quello di rivoltare il fieno. Quindi anch’io, subito dopo pranzo, partivo da casa con la forca, che a quei tempi era più grande di me, e passavo pian piano, un po’ svogliato per le strade di
Favrio. Quasi sempre incontravo qualcuno che mi diceva, con cipiglio: «‘Nde vat toi, popo, con quela forca» e io: «A voltar, fòr ai campi rossi»; e l’altro: «A voltar te va? E alora movete prima che vegna not!». E io acceleravo, sentendomi quegli occhi addosso.
Quando andavo fuori paese succedeva anche di peggio.
A Fiavé sono andato a scuola per due anni, in terza e in quinta elementare, e dovevo per forza attraversare il paese. Quelli di Fiavé ci hanno sempre considerati, e ci considerano ancora e sempre a torto, come… inferiori. Poiché in tutto il Comune le ultime case col tetto di paglia erano rimaste proprio a Favrio, ci chiamavano paioi. Nel percorso verso la scuola mi capitava spesso di incontrare qualcuno e frequentemente venivo apostrofato in questo modo: «‘Nde vat toi, paioio?» ed io: «A scola vago»; e l’altro: «Ah, te va a scola! E alora movete che l’è ‘n pezot che i ha sonà!». Questo bastava perché mi mettessi a correre anche se non ero in ritardo.
Capitava qualche volta che venissi mandato a Vigo Lomaso per qualche cerimonia religiosa. Andavo da solo a piedi, ma il problema era che dovevo attraversare sia Dasindo che Vigo; incontravo sempre qualcuno che mi aggrediva in questo modo: «Ma ti, chi set?» ed io: «Son l’Arigo da Favri»; e l’altro: «E de chi set?» ed io: «Del Virginio son»; e quello: «‘Nde vat?» ed io: «En cesa vago»; e l’altro: «Bravo! E alora mòvete». Un motivo di critica, magari banale, era sempre pronto per tenerci in soggezione.
Adesso queste cose non succedono più. Sono cambiati i bambini e sono cambiati anche gli adulti. Io comunque, che sono un po’ nostalgico, cerco di fare il burbero per mantenere la tradizione e qualche volta, magari con l’aiuto di una nonna, ci riesco.
A proposito di nonne, noi a Favrio ne abbiamo una straordinaria; abita proprio di fronte a casa mia, ha otto figli, tre generi, quattro nuore ed un esercito di nipoti; è sempre sorridente e io non l’ho mai sentita lamentarsi di niente. Una mattina di qualche anno fa sono sull’uscio di casa e lei scende dalla strada di fronte e tiene per mano una bambina splendida. Quasi tutti direbbero subito, chinandosi sorridenti verso la piccola: – Ma che bella bambina! Ciao. Come ti chiami? – E il dialogo con lei continuerebbe con mille moine. Seguo invece un’altra «procedura» e parlo solo con la nonna. «Buongiorno», e la nonna «Buongiorno». Poi, rivolta alla bambina: «Dighe buongiorno al Arigo» e lei: «Buongiorno». Il dialogo continua tra noi adulti, mentre la bambina ci osserva alternativamente un po’ perplessa.
Anche se so benissimo come si chiama e da dove viene la piccola, chiedo: «Scolta, ma chi èla quela putelota lì?» E la nonna: «La Virginia la è». E io: «Virginia? Mai sentida! Ma dan de èla?». La nonna: «Da Berso’ la è». Io: «E de chi èla?» e lei «Dela me Ana la è». Io: «Ades ho capì, èla brava, almen?». La nonna: «Ma sì va là, tasi, che la è anca brava». Io, guardandola burbero: «Son propri content, ciao Virginia». Virginia però a questo punto mi sorride; non l’ho certo intimidita.
Un altro esempio. Mi avvio verso il centro del paese e sento un bambino che piange disperatamente. Dal tono si capisce subito che fa i capricci. Qualcuno chiederebbe, avvicinandosi: «ma perché piange questo povero bambino? Cosa gli è successo? E il bambino continuerebbe a piangere. Io invece a voce molto alta dico: «Che gal da pianger quel putelot lì?». E sua nonna: «Ma tasi che l’è ‘n picogna...». Ed io: «Ah l’è ‘n picogna, alora fal star zito che sel sente a star fin for ala canova!». Il bambino ci guarda e smette immediatamente di piangere: qualche volta il vecchio sistema funziona ancora…
Per questa volta basta. Alla prossima.